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Le Favole più belle
Riduci
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15 Anni 2 giorni fa #3804
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Le Favole più belle
perla che avatar sosso :O
- Consuelo
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15 Anni 1 Giorno fa #3814
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Le Favole più belle
PAFFI E IL SUO CUORE
Moltissimo tempo fa, in una abitazione ai margini del bosco, viveva la piccola Paffi, bimba robusta e piccolina, dal cuore grande grande. Era una bambina molto generosa, per lei il bene degli altri aveva sempre la precedenza sui propri interessi e non riusciva a capire come potessero esistere individui pronti a desiderare il male degli altri. Nel suo animo non esistevano sentimenti come l’invidia o la gelosia e sconosciuto le era qualsiasi desiderio di primeggiare o di offendere chiunque: al contrario, era sempre ben felice se poteva essere d’aiuto ai suoi amici e gioiva per le loro gioie, ed era triste per i loro insuccessi. Paffi era molto intelligente e bravissima a scuola e la maestra non perdeva occasione per lodare la sua buona volontà e diligenza, e soprattutto il suo carattere docile e buono, indicandola ai compagni come un esempio da seguire. Paffi, dicevamo, era altruista: appena poteva correva a dare una mano a chiunque avesse bisogno, nella contrada la amavano e rispettavano tutti, perfino gli animaletti del bosco le volevano sinceramente bene, affetto prontamente ricambiato dalla piccola. Spesso si arrestava a dialogare con i maestosi alberi che abitavano la radura: all’ombra delle querce, dei faggi, dei pini e degli abeti Paffi sentiva di essere veramente se stessa e di non poter desiderare di più, ma… la casetta di Paffi era molto misera: piccolissima e modesta, la abitava con il suo amato cagnolino, Terremoto, che amava più di se stessa. Alle pareti non c’erano quadri, ma disegni realizzati da Paffi, i soffitti erano privi di lampade, al loro posto luminosi raggi di sole che lei raccoglieva al tramonto e utilizzava per dar luce all’abitazione, in sostituzione alle finestre Paffi aveva disposto lunghe file di rametti tenuti insieme da un abile lavoro di cucitura cosi che la riparassero dal caldo dell’’estate e dai rigori dell’inverno. I letti erano costruiti con la paglia, le sedie ricavate dagli avanzi di matita che Paffi sapeva lavorare fino a farli diventare assi per sedere, al posto dei rubinetti ampi secchi d’acqua trasportata ogni mattina dal vicino ruscello… Gli abiti di Paffi erano miseri almeno quanto la sua abitazione: non possedeva i bei vestiti colorati o le linde scarpine di seta tutte nastri e paillettes che adornavano i corpi delle sue amiche: lei doveva accontentarsi di cenci e stracci, di paglia colorata al posto delle gonne e di fango lasciato asciugare invece delle suole di scarpe. Insomma, Paffi era molto povera, la più povera del paese ma questa sua condizione sembrava non interessare nessuno degli amici della bimba, che le volevano bene con tutto il cuore per la sua bontà e generosità. Paffi invece soffriva moltissimo per la sua povertà, spesso inventava scuse per non andare alle festicciole delle amiche ed evitare così l’amarezza del confronto e della vergogna. Ormai la sua povertà era divenuta un’ossessione per lei e, nonostante il suo animo non avesse mai conosciuto l’invidia e la gelosia, in cuor suo cominciò a desiderare di divenire ricca, ricchissima. Si sentiva talmente fuori posto per i suoi abiti dimessi, per la sua misera abitazione che la sera, di nascosto da sguardi indiscreti, si nascondeva nel bosco a piangere e ad invocare l’aiuto della sua cara nonna, morta poco dopo che anche i suoi genitori se ne erano andati. Un giorno, sconsolata dopo l’ennesimo confronto a scuola con le amiche meglio vestite di lei, fu presa da un pianto talmente lungo e doloroso i cui singhiozzi la sospinsero in un punto del bosco che lei non aveva mai visto: e lì il suo pianto commosse tutta la radura, gli uccellini le si fecero incontro per darle consolazione, gli alberi spinsero i loro rametti per asciugarle le lacrime, i pini si piegarono per accarezzarla e perfino il sole fece capolino tra le nuvole per dare tepore a quella creatura indifesa.
Pianse talmente a lungo e in modo così incontrollato che, vinta dalla stanchezza e dall’abbattimento, si addormentò e nel sonno vide la sua nonna che cercava di consolare quel dolore senza fine. La nonna le chiede se puo’ esserle d’aiuto e Paffi riesce solo a rispondere: “nonna, tu mi manchi immensamente, io quaggiù sono sola, vorrei tanto essere li’ con te, mi vergogno tanto per la mia povertà.. Se potessi diventare una bambina ricca, con una casa meravigliosa, bei vestiti, lustrini, scarpe da far invidia a tutti e un carattere degno della mia nuova condizione…”
Dovete sapere che in punto di morte la nonna di Paffi promise alla nipote: “Sappi che di qualsiasi cosa tu avrai bisogno io ti sarò sempre vicina…chiedimi qualsiasi cosa e l’avrai!”.
La nonna dall’alto dei cieli ascoltò la supplica di Paffi e…appena la bimba si svegliò dei suoi abiti dimessi non c’era più traccia, la vestivano un lungo abito azzurro degno di una principessa, tra i capelli un nastro rosa, ai piedi scarpine zeppe di cristalli preziosi…corse a casa e al posto della sua vecchia abitazione un castello con tanto di torri d’avorio, al suo interno saloni immensi con mobili antichi, quadri di pregio, tappeti di valore, oro e broccato ovunque, 8 bagni arredati con raffinatezza, 5 cucine con ogni specialità di cibi e bevande e ancora…. una sala giochi con le migliori attrazioni per bambini, un enorme parco giochi con altalene, scivoli, un campo di calcio e uno di pallavolo. Paffi non poteva essere più felice, saltellava su e giù per la contrada, canterellava, faceva girotondi e sentiva che finalmente non le mancava più nulla.
Passò la notte senza dormire tanto era eccitata dagli avvenimenti di quella giornata e quando arrivò a scuola, la mattina seguente, i suoi compagni restarono a bocca aperta nel vedere quella ragazzina così riccamente abbigliata. Paffi si sentiva una vera regina ed era sicura che nessuno ormai le avrebbe negato il rispetto che desiderava.
Fu con enorme sorpresa che Paffi apprese che nessuno, ma proprio nessuno era in grado di riconoscerla…tutti si chiedevano chi fosse quella bella ragazza così ben vestita e si mostrarono incuriositi, molti presero ad invidiarla e si domandavano”Chi sara’ mai questa bimba che par una principessa?”. Nei giorni seguenti Paffi quasi non degnò di uno sguardo i suoi vecchi amici perchè ormai si considerava superiore a loro e non sembrava piu’ importarle della loro compagnia e affetto.
Al suo ritorno a casa si accorse che anche il suo amato cagnolino stentò a riconoscerla e addirittura ritrasse le sue zampine quando lei gli si avvicinò per accarezzarlo e quando gli preparò la scodellina con il cibo da lui preferito questi si allontanò sconsolato perché era da sempre abituato ad accettare cibo solo dalla sua adorata Paffi, e proprio non riusciva a riconoscere la sua amata padroncina in quella bambina così diversa. Ben presto Terremoto si ammalò di tristezza e, a forza di rifiutare il cibo, divenne magro magro da non riuscire quasi piu’ a camminare; riusciva solo a trascinarsi sulle sue zampine.
In un giorno di lampi e tuoni Terremoto, nel suo vagare senza meta, si spinse fino al limitare della foresta dove si imbatte’ in un enorme leone dai denti affilati che aveva tutta l’aria di volerlo divorare: Terremoto, gia’ abbattuto di per suo, si spavento’ a tal punto che, nel cercar di sfuggire dalle grinfie del felino, si mise a correre all’impazzata e si ritrovo’ sull’orlo di un dirupo; Paffi,non si sa come, si trovo’ esattamente nel punto in cui Terremoto stava per cadere e gli si mette davanti urlando: “Terremoto, sono qua, aggrappati a me e ti salverai.....” ma Terremoto non sa riconoscere la sua padroncina tutta agghindata com’e’ nei suoi fastosi abiti e si lascia cadere nel dirupo. Paffi, per la disperazione, si mette ad urlare con tutta la forza che ha in se’ e a quel punto fu come se il tempo si fermasse e tutto intorno divenne immobile......il leone non si muoveva piu’, i fiori colorati divennero pietre e Terremoto rimase in bilico a mezz’aria tra il cielo e la terra In quello stesso istante Paffi scorse tra le nuvole il volto dell’amata nonna che le parlo’ dolcemente: “Paffi, so che stai soffrendo per il tuo amato cagnolino, io ti sono venuta in aiuto fermando il tempo così che Terremoto sia per il momento salvo, ma il tempo riprendera’ a scorrere normalmente al calar del sole: tu in questo arco di tempo dovrai dimostrare di credere ancora nel valore dell’amicizia e dell’umilta’ e dovrai per questo compiere tre atti di bonta’ lungo il percorso da qui a casa. La vita di Terremoto e’ nelle tue mani!”
Paffi non se lo fa ripetere due volte e, presa la direzione di casa scorge un fiore tutto piegato su se stesso, quasi morente e privo di colore che le sussurra: ”Aiutami, sono tutto secco,una tempesta mi ha ridotto in fin di vita, non potresti portarmi un po’ di acqua cosi’ che possa rialzare il capo?” Paffi fu felice di trasportare un po’ di acqua dal vicino ruscello, che depose in foglie secche per rendere il compito meno pesante. Il fiore riprese presto il perduto colore e gambo e stelo si fecero ritti quasi a sfiorare il cielo.
Ripresa la marcia, Paffi si ritrova immersa in una fitta nebbia dove a malapena ode il richiamo di una tartarughina che, nelle pieghe dei rami dell’ albero su cui e’ posata, a fatica compie il suo faticoso cammino alla ricerca di un luogo per la notte: “se non ti e’ di disturbo, bimba bella, mi daresti una spintarella su su in cima a quest’abete che’ io possa godere di un po’ di riparo per la notte?” chiede la tartaruga alla bambina. Paffi con mano pronta sospinge la tartarughina in un luogo isolato e protetto e regala cosi’ alla creaturina una nottata al riparo dal vento e dai malintenzionati che la notte popolano i boschi. Uno sguardo fugace sulla linea dell’orizzonte annuncia alla bimba il sopraggiungere della sera e Paffi sa che, a tempo scaduto, per Terremoto non ci sara’ piu’ speranza. Tre minuti, due, uno, Paffi urla con tutta la forza che ha in se’:”Terremoto, perdonami, e’ stata colpa mia se tu ora ti trovi in questa situazione, io e la mia mania di diventare ricca! Se fossi rimasta la tua Paffi questo non sarebbe successo! Non m’importa di essere ricca se per questo devo rinunciare ai miei amici e a te!” Al pronunciare queste parole Paffi si sente avvolta da un vortice che le spazza via i suoi abiti lussuosi, via l’abitino lungo, le scarpe preziose, le collanine ed ecco ricomparire il vecchio abbigliamento di sempre, scarpe scucite, grembiulino corto, ciabatte rattoppate... in un lampo e’ trasportata presso il dirupo con Terremoto a mezz’aria e con il tempo che ha ripreso la sua corsa, il cane ora riconosce la sua Paffi e accetta il suo aiuto.
Il cagnolino e’ salvo, il cuore rinnovato della piccola ha fatto il miracolo e la nonna nei Cieli gioca a rincorrere le nuvole; sotto, nel bosco, gli animaletti disposti in girotondo cantano e danzano la loro gioia per la ritrovata famiglia.
Moltissimo tempo fa, in una abitazione ai margini del bosco, viveva la piccola Paffi, bimba robusta e piccolina, dal cuore grande grande. Era una bambina molto generosa, per lei il bene degli altri aveva sempre la precedenza sui propri interessi e non riusciva a capire come potessero esistere individui pronti a desiderare il male degli altri. Nel suo animo non esistevano sentimenti come l’invidia o la gelosia e sconosciuto le era qualsiasi desiderio di primeggiare o di offendere chiunque: al contrario, era sempre ben felice se poteva essere d’aiuto ai suoi amici e gioiva per le loro gioie, ed era triste per i loro insuccessi. Paffi era molto intelligente e bravissima a scuola e la maestra non perdeva occasione per lodare la sua buona volontà e diligenza, e soprattutto il suo carattere docile e buono, indicandola ai compagni come un esempio da seguire. Paffi, dicevamo, era altruista: appena poteva correva a dare una mano a chiunque avesse bisogno, nella contrada la amavano e rispettavano tutti, perfino gli animaletti del bosco le volevano sinceramente bene, affetto prontamente ricambiato dalla piccola. Spesso si arrestava a dialogare con i maestosi alberi che abitavano la radura: all’ombra delle querce, dei faggi, dei pini e degli abeti Paffi sentiva di essere veramente se stessa e di non poter desiderare di più, ma… la casetta di Paffi era molto misera: piccolissima e modesta, la abitava con il suo amato cagnolino, Terremoto, che amava più di se stessa. Alle pareti non c’erano quadri, ma disegni realizzati da Paffi, i soffitti erano privi di lampade, al loro posto luminosi raggi di sole che lei raccoglieva al tramonto e utilizzava per dar luce all’abitazione, in sostituzione alle finestre Paffi aveva disposto lunghe file di rametti tenuti insieme da un abile lavoro di cucitura cosi che la riparassero dal caldo dell’’estate e dai rigori dell’inverno. I letti erano costruiti con la paglia, le sedie ricavate dagli avanzi di matita che Paffi sapeva lavorare fino a farli diventare assi per sedere, al posto dei rubinetti ampi secchi d’acqua trasportata ogni mattina dal vicino ruscello… Gli abiti di Paffi erano miseri almeno quanto la sua abitazione: non possedeva i bei vestiti colorati o le linde scarpine di seta tutte nastri e paillettes che adornavano i corpi delle sue amiche: lei doveva accontentarsi di cenci e stracci, di paglia colorata al posto delle gonne e di fango lasciato asciugare invece delle suole di scarpe. Insomma, Paffi era molto povera, la più povera del paese ma questa sua condizione sembrava non interessare nessuno degli amici della bimba, che le volevano bene con tutto il cuore per la sua bontà e generosità. Paffi invece soffriva moltissimo per la sua povertà, spesso inventava scuse per non andare alle festicciole delle amiche ed evitare così l’amarezza del confronto e della vergogna. Ormai la sua povertà era divenuta un’ossessione per lei e, nonostante il suo animo non avesse mai conosciuto l’invidia e la gelosia, in cuor suo cominciò a desiderare di divenire ricca, ricchissima. Si sentiva talmente fuori posto per i suoi abiti dimessi, per la sua misera abitazione che la sera, di nascosto da sguardi indiscreti, si nascondeva nel bosco a piangere e ad invocare l’aiuto della sua cara nonna, morta poco dopo che anche i suoi genitori se ne erano andati. Un giorno, sconsolata dopo l’ennesimo confronto a scuola con le amiche meglio vestite di lei, fu presa da un pianto talmente lungo e doloroso i cui singhiozzi la sospinsero in un punto del bosco che lei non aveva mai visto: e lì il suo pianto commosse tutta la radura, gli uccellini le si fecero incontro per darle consolazione, gli alberi spinsero i loro rametti per asciugarle le lacrime, i pini si piegarono per accarezzarla e perfino il sole fece capolino tra le nuvole per dare tepore a quella creatura indifesa.
Pianse talmente a lungo e in modo così incontrollato che, vinta dalla stanchezza e dall’abbattimento, si addormentò e nel sonno vide la sua nonna che cercava di consolare quel dolore senza fine. La nonna le chiede se puo’ esserle d’aiuto e Paffi riesce solo a rispondere: “nonna, tu mi manchi immensamente, io quaggiù sono sola, vorrei tanto essere li’ con te, mi vergogno tanto per la mia povertà.. Se potessi diventare una bambina ricca, con una casa meravigliosa, bei vestiti, lustrini, scarpe da far invidia a tutti e un carattere degno della mia nuova condizione…”
Dovete sapere che in punto di morte la nonna di Paffi promise alla nipote: “Sappi che di qualsiasi cosa tu avrai bisogno io ti sarò sempre vicina…chiedimi qualsiasi cosa e l’avrai!”.
La nonna dall’alto dei cieli ascoltò la supplica di Paffi e…appena la bimba si svegliò dei suoi abiti dimessi non c’era più traccia, la vestivano un lungo abito azzurro degno di una principessa, tra i capelli un nastro rosa, ai piedi scarpine zeppe di cristalli preziosi…corse a casa e al posto della sua vecchia abitazione un castello con tanto di torri d’avorio, al suo interno saloni immensi con mobili antichi, quadri di pregio, tappeti di valore, oro e broccato ovunque, 8 bagni arredati con raffinatezza, 5 cucine con ogni specialità di cibi e bevande e ancora…. una sala giochi con le migliori attrazioni per bambini, un enorme parco giochi con altalene, scivoli, un campo di calcio e uno di pallavolo. Paffi non poteva essere più felice, saltellava su e giù per la contrada, canterellava, faceva girotondi e sentiva che finalmente non le mancava più nulla.
Passò la notte senza dormire tanto era eccitata dagli avvenimenti di quella giornata e quando arrivò a scuola, la mattina seguente, i suoi compagni restarono a bocca aperta nel vedere quella ragazzina così riccamente abbigliata. Paffi si sentiva una vera regina ed era sicura che nessuno ormai le avrebbe negato il rispetto che desiderava.
Fu con enorme sorpresa che Paffi apprese che nessuno, ma proprio nessuno era in grado di riconoscerla…tutti si chiedevano chi fosse quella bella ragazza così ben vestita e si mostrarono incuriositi, molti presero ad invidiarla e si domandavano”Chi sara’ mai questa bimba che par una principessa?”. Nei giorni seguenti Paffi quasi non degnò di uno sguardo i suoi vecchi amici perchè ormai si considerava superiore a loro e non sembrava piu’ importarle della loro compagnia e affetto.
Al suo ritorno a casa si accorse che anche il suo amato cagnolino stentò a riconoscerla e addirittura ritrasse le sue zampine quando lei gli si avvicinò per accarezzarlo e quando gli preparò la scodellina con il cibo da lui preferito questi si allontanò sconsolato perché era da sempre abituato ad accettare cibo solo dalla sua adorata Paffi, e proprio non riusciva a riconoscere la sua amata padroncina in quella bambina così diversa. Ben presto Terremoto si ammalò di tristezza e, a forza di rifiutare il cibo, divenne magro magro da non riuscire quasi piu’ a camminare; riusciva solo a trascinarsi sulle sue zampine.
In un giorno di lampi e tuoni Terremoto, nel suo vagare senza meta, si spinse fino al limitare della foresta dove si imbatte’ in un enorme leone dai denti affilati che aveva tutta l’aria di volerlo divorare: Terremoto, gia’ abbattuto di per suo, si spavento’ a tal punto che, nel cercar di sfuggire dalle grinfie del felino, si mise a correre all’impazzata e si ritrovo’ sull’orlo di un dirupo; Paffi,non si sa come, si trovo’ esattamente nel punto in cui Terremoto stava per cadere e gli si mette davanti urlando: “Terremoto, sono qua, aggrappati a me e ti salverai.....” ma Terremoto non sa riconoscere la sua padroncina tutta agghindata com’e’ nei suoi fastosi abiti e si lascia cadere nel dirupo. Paffi, per la disperazione, si mette ad urlare con tutta la forza che ha in se’ e a quel punto fu come se il tempo si fermasse e tutto intorno divenne immobile......il leone non si muoveva piu’, i fiori colorati divennero pietre e Terremoto rimase in bilico a mezz’aria tra il cielo e la terra In quello stesso istante Paffi scorse tra le nuvole il volto dell’amata nonna che le parlo’ dolcemente: “Paffi, so che stai soffrendo per il tuo amato cagnolino, io ti sono venuta in aiuto fermando il tempo così che Terremoto sia per il momento salvo, ma il tempo riprendera’ a scorrere normalmente al calar del sole: tu in questo arco di tempo dovrai dimostrare di credere ancora nel valore dell’amicizia e dell’umilta’ e dovrai per questo compiere tre atti di bonta’ lungo il percorso da qui a casa. La vita di Terremoto e’ nelle tue mani!”
Paffi non se lo fa ripetere due volte e, presa la direzione di casa scorge un fiore tutto piegato su se stesso, quasi morente e privo di colore che le sussurra: ”Aiutami, sono tutto secco,una tempesta mi ha ridotto in fin di vita, non potresti portarmi un po’ di acqua cosi’ che possa rialzare il capo?” Paffi fu felice di trasportare un po’ di acqua dal vicino ruscello, che depose in foglie secche per rendere il compito meno pesante. Il fiore riprese presto il perduto colore e gambo e stelo si fecero ritti quasi a sfiorare il cielo.
Ripresa la marcia, Paffi si ritrova immersa in una fitta nebbia dove a malapena ode il richiamo di una tartarughina che, nelle pieghe dei rami dell’ albero su cui e’ posata, a fatica compie il suo faticoso cammino alla ricerca di un luogo per la notte: “se non ti e’ di disturbo, bimba bella, mi daresti una spintarella su su in cima a quest’abete che’ io possa godere di un po’ di riparo per la notte?” chiede la tartaruga alla bambina. Paffi con mano pronta sospinge la tartarughina in un luogo isolato e protetto e regala cosi’ alla creaturina una nottata al riparo dal vento e dai malintenzionati che la notte popolano i boschi. Uno sguardo fugace sulla linea dell’orizzonte annuncia alla bimba il sopraggiungere della sera e Paffi sa che, a tempo scaduto, per Terremoto non ci sara’ piu’ speranza. Tre minuti, due, uno, Paffi urla con tutta la forza che ha in se’:”Terremoto, perdonami, e’ stata colpa mia se tu ora ti trovi in questa situazione, io e la mia mania di diventare ricca! Se fossi rimasta la tua Paffi questo non sarebbe successo! Non m’importa di essere ricca se per questo devo rinunciare ai miei amici e a te!” Al pronunciare queste parole Paffi si sente avvolta da un vortice che le spazza via i suoi abiti lussuosi, via l’abitino lungo, le scarpe preziose, le collanine ed ecco ricomparire il vecchio abbigliamento di sempre, scarpe scucite, grembiulino corto, ciabatte rattoppate... in un lampo e’ trasportata presso il dirupo con Terremoto a mezz’aria e con il tempo che ha ripreso la sua corsa, il cane ora riconosce la sua Paffi e accetta il suo aiuto.
Il cagnolino e’ salvo, il cuore rinnovato della piccola ha fatto il miracolo e la nonna nei Cieli gioca a rincorrere le nuvole; sotto, nel bosco, gli animaletti disposti in girotondo cantano e danzano la loro gioia per la ritrovata famiglia.
Riduci
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14 Anni 11 Mesi fa #3885
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Le Favole più belle
La fata Ridarella e le sue compagne
C'era una volta un bambina che si chiamava Sara e che non rideva mai. Non era cattiva, per carità, ma un pò capricciosa: rifiutava sempre il cibo che le preparava la sua mamma, rompeva spesso i giocattoli che le venivano regalati e qualche volta non era molto educata quando parlava con i suoi genitori. La sua mamma era proprio molto triste e non sapeva più cosa fare per aiutare la sua bambina e farla diventare un pò più giudiziosa. Una notte, mentre la mamma di Sara non riusciva a dormire e pensava alla sua bimba, le apparve la fatina Ridarella che le disse :" Penserò io a far diventare la tua bambina un pò più sorridente". La fata entrò nella stanza di Sara, le sussurrò qualcosa all'orecchio e se ne andò. Dal giorno dopo, Sara iniziò a sorridere e a divertirsi come tanti altri bambini. Quella notte la mamma di Sara chiamò la fata Ridarella per ringraziarla e le disse che era però sempre preoccupata perchè la bambina le faceva sempre buttare via il pranzo perchè non voleva mai mangiare. "Ti manderò la mia amica, la fata Gnam Gnam". E infatti, la fata Gnam Gnam entrò poco dopo nella stanza di Sara, le sussurrò qualcosa all'orecchio e se ne andò. Come per incanto, dal giorno dopo la bambina iniziò a mangiare tutto ciò che la mamma le metteva nel piatto senza mai protestare. Quella notte la mamma di Sara chiamò la fata Gnam Gnam per ringraziarla, ma le disse di essere ancora preoccupata perchè la figlia non aveva rispetto per i giocattoli e li rompeva sempre. La fata Gnam Gnam le disse:" Non preoccuparti, farò venire la mia amica, la fatina Divertina". Come le altre fate, anche Divertina entrò di notte nella stanza di Sara, le disse qualcosa all'orecchio e sparì. L'indomani, Sara mise in ordine tutti i suoi giocattoli, e li ripose con cura in modo che non potessero rompersi. Anche quella notte la mamma di Sara chiamò la fata per ringraziarla, ma le chiese un ultimo favore, perchè Sara non era sempre molto educata quando parlava con lei. Divertina le disse che doveva stare tranquilla:le avrebbe mandato la sua amica, la fata Gentilina. E come sempre, Gentilina entrò di notte in camera di Sara, e dopo averle detto due parole nell'orecchio, se ne andò. Dal giorno dopo Sara diventò gentile e obbediente e la mamma la abbracciò e la baciò ancora di più di quanto faceva prima. Poi, siccome moriva dalla curiosità, chiese alla sua bambina:" Posso sapere cosa ti hanno detto le fatine?" . "Certo mamma", rispose la bimba, "Mi hanno detto che nel mondo ci sono molti bambini sfortunati che non possono sorridere perchè non hanno nulla da mangiare, non hanno giochi con cui giocare e passare il tempo e soprattutto non hanno un papà e una mamma che gli vogliano bene come voi ne volete a me, perciò bisogna essere felici di quello che si ha." Sara era una bambina molto intelligente e aveva capito subito quello che le avevano voluto dire le fatine della notte, ma sicuramente tutti i bimbi che ascolteranno o leggeranno questa storia sono intelligenti come Sara e anche di più, quindi avranno certamente capito anche loro le parole della fata Ridarella e delle sue compagne.
C'era una volta un bambina che si chiamava Sara e che non rideva mai. Non era cattiva, per carità, ma un pò capricciosa: rifiutava sempre il cibo che le preparava la sua mamma, rompeva spesso i giocattoli che le venivano regalati e qualche volta non era molto educata quando parlava con i suoi genitori. La sua mamma era proprio molto triste e non sapeva più cosa fare per aiutare la sua bambina e farla diventare un pò più giudiziosa. Una notte, mentre la mamma di Sara non riusciva a dormire e pensava alla sua bimba, le apparve la fatina Ridarella che le disse :" Penserò io a far diventare la tua bambina un pò più sorridente". La fata entrò nella stanza di Sara, le sussurrò qualcosa all'orecchio e se ne andò. Dal giorno dopo, Sara iniziò a sorridere e a divertirsi come tanti altri bambini. Quella notte la mamma di Sara chiamò la fata Ridarella per ringraziarla e le disse che era però sempre preoccupata perchè la bambina le faceva sempre buttare via il pranzo perchè non voleva mai mangiare. "Ti manderò la mia amica, la fata Gnam Gnam". E infatti, la fata Gnam Gnam entrò poco dopo nella stanza di Sara, le sussurrò qualcosa all'orecchio e se ne andò. Come per incanto, dal giorno dopo la bambina iniziò a mangiare tutto ciò che la mamma le metteva nel piatto senza mai protestare. Quella notte la mamma di Sara chiamò la fata Gnam Gnam per ringraziarla, ma le disse di essere ancora preoccupata perchè la figlia non aveva rispetto per i giocattoli e li rompeva sempre. La fata Gnam Gnam le disse:" Non preoccuparti, farò venire la mia amica, la fatina Divertina". Come le altre fate, anche Divertina entrò di notte nella stanza di Sara, le disse qualcosa all'orecchio e sparì. L'indomani, Sara mise in ordine tutti i suoi giocattoli, e li ripose con cura in modo che non potessero rompersi. Anche quella notte la mamma di Sara chiamò la fata per ringraziarla, ma le chiese un ultimo favore, perchè Sara non era sempre molto educata quando parlava con lei. Divertina le disse che doveva stare tranquilla:le avrebbe mandato la sua amica, la fata Gentilina. E come sempre, Gentilina entrò di notte in camera di Sara, e dopo averle detto due parole nell'orecchio, se ne andò. Dal giorno dopo Sara diventò gentile e obbediente e la mamma la abbracciò e la baciò ancora di più di quanto faceva prima. Poi, siccome moriva dalla curiosità, chiese alla sua bambina:" Posso sapere cosa ti hanno detto le fatine?" . "Certo mamma", rispose la bimba, "Mi hanno detto che nel mondo ci sono molti bambini sfortunati che non possono sorridere perchè non hanno nulla da mangiare, non hanno giochi con cui giocare e passare il tempo e soprattutto non hanno un papà e una mamma che gli vogliano bene come voi ne volete a me, perciò bisogna essere felici di quello che si ha." Sara era una bambina molto intelligente e aveva capito subito quello che le avevano voluto dire le fatine della notte, ma sicuramente tutti i bimbi che ascolteranno o leggeranno questa storia sono intelligenti come Sara e anche di più, quindi avranno certamente capito anche loro le parole della fata Ridarella e delle sue compagne.
14 Anni 11 Mesi fa #3891
da rugiada
Risposta da rugiada al topic Re:Le Favole più belle
a me piacciono anche le fiabe di Fedro sempre con morali belle toste:
La volpe e l'uva
C’era una volta una volpe, furba e presuntuosa..….
Un giorno spinta dalla fame, gironzolando qua e là, trovò una vigna dagli alti tralicci. Ecco disse:” finalmente qualcosa di prelibato”. Tentò allora di saltare spingendo sulle zampe con quanta forza aveva in corpo….ma nulla.
Calma, si disse:” io così furba non posso arrendermi ma, devo escogitare qualcosa per raggiungere quell’uva”. Dopo un breve riposo riprese a saltare ma dopo alcuni balzi, non potendo neppure toccarla, così disse mentre mestamente si allontanava: “ Pazienza, non è ancora matura, non mi va di spendere troppe energie per un frutto ancora acerbo”.
La volpe e l'uva
C’era una volta una volpe, furba e presuntuosa..….
Un giorno spinta dalla fame, gironzolando qua e là, trovò una vigna dagli alti tralicci. Ecco disse:” finalmente qualcosa di prelibato”. Tentò allora di saltare spingendo sulle zampe con quanta forza aveva in corpo….ma nulla.
Calma, si disse:” io così furba non posso arrendermi ma, devo escogitare qualcosa per raggiungere quell’uva”. Dopo un breve riposo riprese a saltare ma dopo alcuni balzi, non potendo neppure toccarla, così disse mentre mestamente si allontanava: “ Pazienza, non è ancora matura, non mi va di spendere troppe energie per un frutto ancora acerbo”.
- Consuelo
- Visitatori
14 Anni 11 Mesi fa #3915
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Le Favole più belle
ROSSO
Un giorno Alessio, bimbo birichino, era a spasso con la mamma quando vide in un angolo un omino piccino piccino che teneva tanti palloncini legati ad un filo. La sua attenzione fu attratta da un palloncino di uno strano colore, si avvicinò e sentì una vocina che diceva: "Ciao Alessio, finalmente sei arrivato! E' da tanto che ti aspetto".
Alessio non credeva alle sue orecchie: non solo il palloncino parlava, ma conosceva anche il suo nome, e pensava: "Come posso fare a convincere la mamma a comprarmelo?". Mentre pensava, il palloncino come per magia gli si attaccò al polso e l'omino sparì; Alessio confuso cercò di tornare dalla mamma, ma il pallone si sollevò e se lo portò in giro per il cielo.
Volarono per tanto tempo, e Alessio, sulle prime spaventato, ora passava da meraviglia a meraviglia.
Dopo tanto volare si trovò in un paese in cui tutto era del colore del palloncino. Che vivacità c'era intorno! Tutti erano allegri, e Alessio si domandava: "Ma tutta quest'allegria, dove la troveranno?".
Il palloncino, che era magico e leggeva nel pensiero, parlò ancora: "So quello che stai pensando: la nostra allegria ce la porta il colore che ci veste! Hai mai guardato la fiamma che scoppietta nel fuoco? Non ti dà allegria? Oppure, quando sei sotto un albero di ciliege, i suoi frutti non ti danno gioia?".
"Certo - rispose Alessio - il peccato è che nessuno sa come si chiama quel colore".
"Vieni con me - riprese il palloncino - ti porto dall'inventore del colore: sicuramente lui sa come si chiama".
Volarono fino ad una casa a forma di mela tutta rossa, entrarono e, nel centro della stanza, videro una grande stufa con un pentolone che bolliva ed un omino che rimestava contando: "Uno ... due ... tre ... quattro ...".
Il palloncino disse ad Alessio: "Ecco, ti presento il maghetto Zurulumba: proprio adesso sta creando il colore. Devi sapere infatti che in questo paese c'è molto sole e cosí il nostro colore sbiadisce, e lui ha l'incarico di mantenere la scorta per poterci verniciare, anzi riverniciare tutti. Ora chiediamogli se può rispondere alla tua domanda".
Si avvicinarono al maghetto che brontolando si rivolse in questo modo al palloncino: "Lo sai che quando lavoro non voglio intrusi! Chi è questo, da dove viene? Perché non è come noi?".
Il palloncino rispose con rispetto: "Il sindaco del nostro paese mi ha mandato in un pianeta che si chiama terra, per vedere come si vive, e se ci sono cose nuove. Bene, ecco un terrestre: è diventato mio amico e vuole scoprire come si chiama il nostro colore. Non è buffo?".
Il maghetto guardò incuriosito Alessio e gli disse: "Vedi, questo colore lo ha inventato il mago Rossano tanti tanti anni fa, e quindi in suo omaggio lo abbiamo chiamato rosso. Il fatto che lo abbiate anche voi sulla terra risale al giorno in cui gli si rovesciò un pentolone pieno di colore, che dopo aver volato qua e là nello spazio scese nel vostro pianeta tingendo così tutto quello che toccò; ecco perché non ne conoscete il nome. Sei contento ora?".
"Certo che lo sono - rispose Alessio felice - Pensa, per noi era un vero disastro, non sapevamo mai come spiegarci! Grazie di tutto, ciao! Se passerai dalla terra, vienimi a trovare".
Appena usciti dalla casa del mago, Alessio disse al suo amico: "Palloncino, ti ringrazio molto: sei stato molto gentile a farmi visitare il tuo pianeta. Ora però dovrei tornare dalla mia mamma che sicuramente sarà molto in pensiero per me".
Il Palloncino un poco mortificato rispose: "Va bene ... peccato però, mi piaceva stare con te", e detto questo, si attaccò di nuovo al polso di Alessio e cominciò a scendere lentamente verso la terra. Arrivarono così sulla porta di casa, si salutarono e infine il palloncino tornò verso il suo pianeta.
Alessio entrò, e la mamma appena lo vide gli corse incontro dicendogli tra le lacrime: "Birichino, dove sei stato tutto questo tempo? Ti ho visto volare verso il cielo e poi ... puf!, sparito!".
Lui le raccontò tutte le sue avventure e, quando rivelò il nome del colore che a lei piaceva tanto, la mamma corse dal sindaco, il quale convocò una riunione straordinaria della cittadinanza.
Chiamato sul palco d'onore Alessio, disse: "Vedete davanti a voi un valoroso che ha scoperto il nome del colore che a noi tutti piace tanto: si chiama rosso e viene da un pianeta molto lontano!".
Tutti applaudirono con calore e, mentre il sindaco premiava Alessio con una medaglia al merito, la gente gridava: "Viva il colore rosso! Viva Alessio suo scopritore!". Poi venne chiamato l'arcobaleno e anche lì, con grandi festeggiamenti, fu aggiunto quel colore.
Alessio non dimenticò mai la sua avventura, e tutte le volte che vedeva un palloncino rosso per strada o sugli alberi, sperava che fosse il suo amico.
Un giorno Alessio, bimbo birichino, era a spasso con la mamma quando vide in un angolo un omino piccino piccino che teneva tanti palloncini legati ad un filo. La sua attenzione fu attratta da un palloncino di uno strano colore, si avvicinò e sentì una vocina che diceva: "Ciao Alessio, finalmente sei arrivato! E' da tanto che ti aspetto".
Alessio non credeva alle sue orecchie: non solo il palloncino parlava, ma conosceva anche il suo nome, e pensava: "Come posso fare a convincere la mamma a comprarmelo?". Mentre pensava, il palloncino come per magia gli si attaccò al polso e l'omino sparì; Alessio confuso cercò di tornare dalla mamma, ma il pallone si sollevò e se lo portò in giro per il cielo.
Volarono per tanto tempo, e Alessio, sulle prime spaventato, ora passava da meraviglia a meraviglia.
Dopo tanto volare si trovò in un paese in cui tutto era del colore del palloncino. Che vivacità c'era intorno! Tutti erano allegri, e Alessio si domandava: "Ma tutta quest'allegria, dove la troveranno?".
Il palloncino, che era magico e leggeva nel pensiero, parlò ancora: "So quello che stai pensando: la nostra allegria ce la porta il colore che ci veste! Hai mai guardato la fiamma che scoppietta nel fuoco? Non ti dà allegria? Oppure, quando sei sotto un albero di ciliege, i suoi frutti non ti danno gioia?".
"Certo - rispose Alessio - il peccato è che nessuno sa come si chiama quel colore".
"Vieni con me - riprese il palloncino - ti porto dall'inventore del colore: sicuramente lui sa come si chiama".
Volarono fino ad una casa a forma di mela tutta rossa, entrarono e, nel centro della stanza, videro una grande stufa con un pentolone che bolliva ed un omino che rimestava contando: "Uno ... due ... tre ... quattro ...".
Il palloncino disse ad Alessio: "Ecco, ti presento il maghetto Zurulumba: proprio adesso sta creando il colore. Devi sapere infatti che in questo paese c'è molto sole e cosí il nostro colore sbiadisce, e lui ha l'incarico di mantenere la scorta per poterci verniciare, anzi riverniciare tutti. Ora chiediamogli se può rispondere alla tua domanda".
Si avvicinarono al maghetto che brontolando si rivolse in questo modo al palloncino: "Lo sai che quando lavoro non voglio intrusi! Chi è questo, da dove viene? Perché non è come noi?".
Il palloncino rispose con rispetto: "Il sindaco del nostro paese mi ha mandato in un pianeta che si chiama terra, per vedere come si vive, e se ci sono cose nuove. Bene, ecco un terrestre: è diventato mio amico e vuole scoprire come si chiama il nostro colore. Non è buffo?".
Il maghetto guardò incuriosito Alessio e gli disse: "Vedi, questo colore lo ha inventato il mago Rossano tanti tanti anni fa, e quindi in suo omaggio lo abbiamo chiamato rosso. Il fatto che lo abbiate anche voi sulla terra risale al giorno in cui gli si rovesciò un pentolone pieno di colore, che dopo aver volato qua e là nello spazio scese nel vostro pianeta tingendo così tutto quello che toccò; ecco perché non ne conoscete il nome. Sei contento ora?".
"Certo che lo sono - rispose Alessio felice - Pensa, per noi era un vero disastro, non sapevamo mai come spiegarci! Grazie di tutto, ciao! Se passerai dalla terra, vienimi a trovare".
Appena usciti dalla casa del mago, Alessio disse al suo amico: "Palloncino, ti ringrazio molto: sei stato molto gentile a farmi visitare il tuo pianeta. Ora però dovrei tornare dalla mia mamma che sicuramente sarà molto in pensiero per me".
Il Palloncino un poco mortificato rispose: "Va bene ... peccato però, mi piaceva stare con te", e detto questo, si attaccò di nuovo al polso di Alessio e cominciò a scendere lentamente verso la terra. Arrivarono così sulla porta di casa, si salutarono e infine il palloncino tornò verso il suo pianeta.
Alessio entrò, e la mamma appena lo vide gli corse incontro dicendogli tra le lacrime: "Birichino, dove sei stato tutto questo tempo? Ti ho visto volare verso il cielo e poi ... puf!, sparito!".
Lui le raccontò tutte le sue avventure e, quando rivelò il nome del colore che a lei piaceva tanto, la mamma corse dal sindaco, il quale convocò una riunione straordinaria della cittadinanza.
Chiamato sul palco d'onore Alessio, disse: "Vedete davanti a voi un valoroso che ha scoperto il nome del colore che a noi tutti piace tanto: si chiama rosso e viene da un pianeta molto lontano!".
Tutti applaudirono con calore e, mentre il sindaco premiava Alessio con una medaglia al merito, la gente gridava: "Viva il colore rosso! Viva Alessio suo scopritore!". Poi venne chiamato l'arcobaleno e anche lì, con grandi festeggiamenti, fu aggiunto quel colore.
Alessio non dimenticò mai la sua avventura, e tutte le volte che vedeva un palloncino rosso per strada o sugli alberi, sperava che fosse il suo amico.
- Consuelo
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14 Anni 11 Mesi fa #3929
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Le Favole più belle
Giallo
Ora vi racconto le disavventure di un pittore sbadato di nome Gerolamo.
Un giorno, mentre dipingeva un bel quadro tutto rosso, sentì fuori dalla finestra tanti sospiri. Si affacciò e non vide nessuno, richiuse la finestra ma ... ai sospiri si accompagnarono i lamenti, e dunque tornò ad affacciarsi, ma anche stavolta non vide nessuno e così pensò tra sé e sé: "Sono diventato matto, ho immaginato di sentire dei lamenti", e poi riprese a dipingere il suo bel quadro rosso. Questa volta però sentì dei veri e propri singhiozzi e decise di uscire in cortile e seguire le voci per capire da dove venivano.
In un angolo del prato vide dei pulcini che beccavano piangendo, dei fiori con i petali a penzoloni e un covone di paglia che sussultava dai singhiozzi. Quello che gli sembrava strano era che tutti avevano solo i contorni neri, e perciò chiese loro: "Ma dove avete messo i vostri colori?".
I poveretti risposero: "Devi sapere che la strega Birimbella, per farci un dispetto, con una magia ci ha portati via i nostri colori; come faremo mai? Poveri noi!". "La nostra mamma Coccodè - aggiunsero i pulcini - non ci riconoscerà più, non ci verrà più vicino!". "E noi cosa dovremmo dire? - si lamentavano i girasoli - Abbiamo tutti i petali a penzoloni, non sembriamo nemmeno più dei fiori!". "E io? - disse piangendo il covone di paglia - Sembro uno scarabocchio!".
Ad un tratto una voce grossa grossa interruppe tutte le lamentele e i pianti dicendo: "Vi lamentate voi? Cosa debbo dire allora io che sono l'astro più importante?!". Il pittore alzò gli occhi e si accorse che a parlare era il sole, pure lui nelle stesse condizioni, e gli chiese: "Anche a te la strega Birimbella ha fatto un brutto scherzo?". "No, - rispose il sole - è stata la nuvola Gelsomina, che passandomi davanti mi ha portato via il colore. Povero me! Come farò mai ad illuminare la terra, a scaldarla con i miei raggi? Sono proprio disperato... ti prego, aiutaci!". "Mi raccomando di non dimenticarti di me! - intervenne l'arcobaleno - Sono magro magro: come farò ad avvertire la gente che è finito il temporale?".
Il pittore promise di fare il possibile per trovare il loro colore, e salutandoli tornò a casa. Come entrò nell'ingresso, da sbadato com'era, non si accorse che in un angolo c'era uno strano barattolo che non aveva mai aperto, perciò con un calcio lo fece rotolare, anzi volare, e la caduta fu così disastrosa che si aprì il coperchio facendo così fare il bagno al povero gatto che se la dormiva tranquillamente. Povero Archimede! Non solo aveva cambiato colore, ma era tutto bagnato e talmente spaventato che, infilata la porta ancora aperta, se la filò nel giardino.
Il pittore non si accorse di tutto quello che era successo e, impegnato a pensare come poter aiutare quei poveretti, sentì dal prato delle voci allegre che gridavano a perdifiato: "Evviva! C'è riuscito! Urrà per il pittore!". Si precipitò fuori di casa, e vi lascio immaginare il suo stupore quando vide Archimede che si pavoneggiava e i poverelli (che prima piangevano disperati) che battevano le mani, ridevano, cantavano con calore.
Il pittore chiese: "Che cosa è successo? Cos'è che vi rende tanto felici?". Risposero tutti in coro: "Siamo felici perché hai scoperto il nostro colore! Dai, coloraci subito!".
Allora guardò bene il gatto Archimede, poi tornò in casa e scoprì che nello sgabuzzino aveva un barile quel colore. Armato di un pennellone grosso grosso, colorò prima i pulcini, poi il sole, il covone di paglia e i fiori.
Alla fine esclamò: "Ora sì che siete veramente belli! Questo colore lo chiamerò giallo". Poi chiamò l'arcobaleno che felice gli si avvicinò per farsi aggiungere quel colore, e così tutto finì bene.
I pulcini ripresero felici a beccare nel prato, il covone si gonfiò pavoneggiandosi, il sole in alto tornò a brillare e il girasole ricominciò a girare seguendo i suoi raggi. Il gatto invece iniziò a lavarsi il pelo con la lingua, l'arcobaleno si dondolò di nuovo in cielo, e il pittore tornò al suo quadro rosso e ... indovinate: ci aggiunse pure dei bellissimi fiori gialli. Quanta pace era tornata!
Ora vi racconto le disavventure di un pittore sbadato di nome Gerolamo.
Un giorno, mentre dipingeva un bel quadro tutto rosso, sentì fuori dalla finestra tanti sospiri. Si affacciò e non vide nessuno, richiuse la finestra ma ... ai sospiri si accompagnarono i lamenti, e dunque tornò ad affacciarsi, ma anche stavolta non vide nessuno e così pensò tra sé e sé: "Sono diventato matto, ho immaginato di sentire dei lamenti", e poi riprese a dipingere il suo bel quadro rosso. Questa volta però sentì dei veri e propri singhiozzi e decise di uscire in cortile e seguire le voci per capire da dove venivano.
In un angolo del prato vide dei pulcini che beccavano piangendo, dei fiori con i petali a penzoloni e un covone di paglia che sussultava dai singhiozzi. Quello che gli sembrava strano era che tutti avevano solo i contorni neri, e perciò chiese loro: "Ma dove avete messo i vostri colori?".
I poveretti risposero: "Devi sapere che la strega Birimbella, per farci un dispetto, con una magia ci ha portati via i nostri colori; come faremo mai? Poveri noi!". "La nostra mamma Coccodè - aggiunsero i pulcini - non ci riconoscerà più, non ci verrà più vicino!". "E noi cosa dovremmo dire? - si lamentavano i girasoli - Abbiamo tutti i petali a penzoloni, non sembriamo nemmeno più dei fiori!". "E io? - disse piangendo il covone di paglia - Sembro uno scarabocchio!".
Ad un tratto una voce grossa grossa interruppe tutte le lamentele e i pianti dicendo: "Vi lamentate voi? Cosa debbo dire allora io che sono l'astro più importante?!". Il pittore alzò gli occhi e si accorse che a parlare era il sole, pure lui nelle stesse condizioni, e gli chiese: "Anche a te la strega Birimbella ha fatto un brutto scherzo?". "No, - rispose il sole - è stata la nuvola Gelsomina, che passandomi davanti mi ha portato via il colore. Povero me! Come farò mai ad illuminare la terra, a scaldarla con i miei raggi? Sono proprio disperato... ti prego, aiutaci!". "Mi raccomando di non dimenticarti di me! - intervenne l'arcobaleno - Sono magro magro: come farò ad avvertire la gente che è finito il temporale?".
Il pittore promise di fare il possibile per trovare il loro colore, e salutandoli tornò a casa. Come entrò nell'ingresso, da sbadato com'era, non si accorse che in un angolo c'era uno strano barattolo che non aveva mai aperto, perciò con un calcio lo fece rotolare, anzi volare, e la caduta fu così disastrosa che si aprì il coperchio facendo così fare il bagno al povero gatto che se la dormiva tranquillamente. Povero Archimede! Non solo aveva cambiato colore, ma era tutto bagnato e talmente spaventato che, infilata la porta ancora aperta, se la filò nel giardino.
Il pittore non si accorse di tutto quello che era successo e, impegnato a pensare come poter aiutare quei poveretti, sentì dal prato delle voci allegre che gridavano a perdifiato: "Evviva! C'è riuscito! Urrà per il pittore!". Si precipitò fuori di casa, e vi lascio immaginare il suo stupore quando vide Archimede che si pavoneggiava e i poverelli (che prima piangevano disperati) che battevano le mani, ridevano, cantavano con calore.
Il pittore chiese: "Che cosa è successo? Cos'è che vi rende tanto felici?". Risposero tutti in coro: "Siamo felici perché hai scoperto il nostro colore! Dai, coloraci subito!".
Allora guardò bene il gatto Archimede, poi tornò in casa e scoprì che nello sgabuzzino aveva un barile quel colore. Armato di un pennellone grosso grosso, colorò prima i pulcini, poi il sole, il covone di paglia e i fiori.
Alla fine esclamò: "Ora sì che siete veramente belli! Questo colore lo chiamerò giallo". Poi chiamò l'arcobaleno che felice gli si avvicinò per farsi aggiungere quel colore, e così tutto finì bene.
I pulcini ripresero felici a beccare nel prato, il covone si gonfiò pavoneggiandosi, il sole in alto tornò a brillare e il girasole ricominciò a girare seguendo i suoi raggi. Il gatto invece iniziò a lavarsi il pelo con la lingua, l'arcobaleno si dondolò di nuovo in cielo, e il pittore tornò al suo quadro rosso e ... indovinate: ci aggiunse pure dei bellissimi fiori gialli. Quanta pace era tornata!
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14 Anni 11 Mesi fa #3940
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Le Favole più belle
C'era una volta, là
dalle parti di Chissà,
il paese dei bugiardi.
In quel paese nessuno
diceva la verità,
non chiamavano col suo nome
nemmeno la cicoria:
la bugia era obbligatoria.
Quando spuntava il sole
c'era subito una pronto
a dire: "Che bel tramonto!"
Di sera, se la luna
faceva più chiaro
di un faro,
si lagnava la gente:
"Ohibò, che notte bruna,
non ci si vede niente".
Se ridevi ti compativano:
"Poveraccio, peccato,
che gli sarà mai capitato
di male?"
Se piangevi: "Che tipo originale,
sempre allegro, sempre in festa.
Deve avere i milioni nella testa".
Chiamavano acqua il vino,
seggiola il tavolino
e tutte le parole
le rovesciavano per benino.
Fare diverso non era permesso,
ma c'erano tanto abituati
che si capivano lo stesso.
Un giorno in quel paese
capitò un povero ometto
che il codice dei bugiardi
non l'aveva mai letto,
e senza tanti riguardi
se ne andava intorno
chiamando giorno il giorno
e pera la pera,
e non diceva una parola
che non fosse vera.
Dall'oggi al domani
lo fecero pigliare
dall'acchiappacani
e chiudere al manicomio.
"E' matto da legare:
dice sempre la verità".
"Ma no, ma via, ma và ..."
"Parola d'onore:
è un caso interessante,
verranno da distante
cinquecento e un professore
per studiargli il cervello ..."
La strana malattia
fu descritta in trentatre puntate
sulla "Gazzetta della bugia".
Infine per contentare
la curiosità
popolare
l'Uomo-che-diceva-la-verità
fu esposto a pagamento
nel "giardino zoo-illogico"
(anche quel nome avevano rovesciato ...)
in una gabbia di cemento armato.
Figurarsi la ressa.
Ma questo non interessa.
Cosa più sbalorditiva,
la malattia si rivelò infettiva,
e un po' alla volta in tutta la città
si diffuse il bacillo
della verità.
Dottori, poliziotti, autorità
tentarono il possibile
per frenare l'epidemia.
Macché, niente da fare.
Dal più vecchio al più piccolino
la gente ormai diceva
pane al pane, vino al vino,
bianco al bianco, nero al nero:
liberò il prigioniero,
lo elesse presidente,
e chi non mi crede
non ha capito niente.
dalle parti di Chissà,
il paese dei bugiardi.
In quel paese nessuno
diceva la verità,
non chiamavano col suo nome
nemmeno la cicoria:
la bugia era obbligatoria.
Quando spuntava il sole
c'era subito una pronto
a dire: "Che bel tramonto!"
Di sera, se la luna
faceva più chiaro
di un faro,
si lagnava la gente:
"Ohibò, che notte bruna,
non ci si vede niente".
Se ridevi ti compativano:
"Poveraccio, peccato,
che gli sarà mai capitato
di male?"
Se piangevi: "Che tipo originale,
sempre allegro, sempre in festa.
Deve avere i milioni nella testa".
Chiamavano acqua il vino,
seggiola il tavolino
e tutte le parole
le rovesciavano per benino.
Fare diverso non era permesso,
ma c'erano tanto abituati
che si capivano lo stesso.
Un giorno in quel paese
capitò un povero ometto
che il codice dei bugiardi
non l'aveva mai letto,
e senza tanti riguardi
se ne andava intorno
chiamando giorno il giorno
e pera la pera,
e non diceva una parola
che non fosse vera.
Dall'oggi al domani
lo fecero pigliare
dall'acchiappacani
e chiudere al manicomio.
"E' matto da legare:
dice sempre la verità".
"Ma no, ma via, ma và ..."
"Parola d'onore:
è un caso interessante,
verranno da distante
cinquecento e un professore
per studiargli il cervello ..."
La strana malattia
fu descritta in trentatre puntate
sulla "Gazzetta della bugia".
Infine per contentare
la curiosità
popolare
l'Uomo-che-diceva-la-verità
fu esposto a pagamento
nel "giardino zoo-illogico"
(anche quel nome avevano rovesciato ...)
in una gabbia di cemento armato.
Figurarsi la ressa.
Ma questo non interessa.
Cosa più sbalorditiva,
la malattia si rivelò infettiva,
e un po' alla volta in tutta la città
si diffuse il bacillo
della verità.
Dottori, poliziotti, autorità
tentarono il possibile
per frenare l'epidemia.
Macché, niente da fare.
Dal più vecchio al più piccolino
la gente ormai diceva
pane al pane, vino al vino,
bianco al bianco, nero al nero:
liberò il prigioniero,
lo elesse presidente,
e chi non mi crede
non ha capito niente.
- Consuelo
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14 Anni 11 Mesi fa #3948
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Le Favole più belle
C'era una volta un Re molto giovane, che voleva prender moglie, ma voleva sposare la più bella ragazza del mondo.
- E se non è di sangue reale? - gli domandarono i ministri.
- Non me n'importa nulla.
- Allora sappiate, Maestà, che la più bella ragazza del mondo è la figliuola di un ciaba. Ma il popolo, che è maligno, potrebbe chiamarla: la regina Ciabatta... Maestà, non sta bene: rifletteteci meglio.
Il Re rispose:
- La figliuola del ciaba è la più bella ragazza del mondo? La figliuola del ciaba sarà dunque mia sposa e Regina. Andrò a vederla senza farmi conoscere; partirò domani.
Ordinò che gli si sellasse uno dei suoi cavalli, e, accompagnato da un solo servitore, s'incamminò per quel paese, dove il ciaba abitava.
Per via incontrarono una vecchia che domandava l'elemosina:
- Fate la carità! Fate la carità!
Il Re non se ne dava per inteso.
La vecchina arrancava dietro il cavallo.
- Fate la carità! Fate la carità!
Il cavallo del Re s'adombrò, e urtò la vecchina che cadde per terra.
Il Re, senza punto curarsene, tirò innanzi; ma il servitore, impietosito, scese da cavallo, la sollevò, e visto che non s'era fatta nulla di male, cavò di tasca le poche monete che aveva e gliele mise in mano:
- Vecchina mia, non ho altro.
- Grazie, figliuolo; si vede il buon cuore. Accetta in ricambio questo anellino e portalo al dito; sarà la tua fortuna.
Arrivati in quel paese, il Re accompagnato dal servitore passò e ripassò davanti la bottega del ciaba, finché non gli riuscì di vedere la bella ragazza, che era la più bella del mondo. Rimase abbagliato!
E, senza por tempo in mezzo, disse al ciaba:
- Io sono il Re: vo' la tua figliuola per moglie.
- Maestà, c'è un intoppo. La mia figliuola ha una malìa: chi le parlerà la prima volta e le farà provare una puntura al dito mignolo, quello dovrà essere il suo sposo. Possiamo provare.
Il Re a questa notizia rimase un po' turbato; ma poi pensò:
- Se questa malìa è la sua buona sorte, costei dev'essere destinata a sposare un regnante.
E tutto allegro, disse al ciaba:
- Proviamo.
Il ciaba chiamò la figliuola, senza dirle del Re; e come questi se la vide dinanzi, restò più abbagliato di prima.
- Buon giorno, bella ragazza.
- Buon giorno, signore.
Lei non sapeva nulla della malìa. Suo padre, che sarebbe stato felice di vederla Regina, le domandò:
- Non ti senti nulla?
- Nulla. Che cosa dovrei sentirmi?
Il povero Re, gli parve di morire a quella risposta. E stava per andarsene zitto zitto; quando il servitore, ch'era rimasto in un canto, credette opportuno di dire sottovoce alla ragazza:
- Badate, è Sua Maestà!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza si sentiva un'atroce puntura al dito mignolo, e scoteva la mano:
- Ahi! Ahi! Ahi!
Figuriamoci il viso del Re, come capì che quella ragazza, la più bella del mondo, era destinata a quel tanghero del suo servitore!
Prese in disparte il ciaba e gli disse:
- Lascia fare a me; la tua figliuola sarà Regina.
Tornato al palazzo reale, chiamò il servitore:
- Prima che tu sposi la figliuola del ciaba, devi rendermi un servigio: mi fido soltanto di te. Portami questa lettera al Re di Spagna, e attendi la risposta; ma nessuno deve sapere dove tu vada e perché.
- Maestà, sarà fatto.
Prese la lettera e partì.
A metà di strada incontrò quella vecchina:
- Dove vai, figliuolo mio?
- Dove mi portan le gambe.
- Ah, poverino! Tu non sai quel che ti aspetta. Quella lettera è un tradimento! Se tu la presenti al Re, sarai subito ammazzato. Portagli questa, invece: farà un altro effetto.
Allora lui prese la lettera della vecchina, e quella del Re la buttò via. Ringraziò e proseguì il viaggio.
Era già passato un anno, e non si era saputo più nuova di lui.
Il Re tornò dal ciaba, e disse alla ragazza:
- Quell'uomo dev'essere morto: è già passato un anno e non si sa nuova di lui. Il meglio che possiamo fare è lo sposarci noialtri.
- Maestà, come voi volete.
Il Re fece i preparativi delle nozze, e quando fu quel giorno, andò insieme coi ministri a rilevare la sposa con la carrozza di gala.
In casa del ciaba trovarono una granata ritta in mezzo alla stanza, e il Re disse ai ministri:
- Ecco Sua Maestà la Regina!
I ministri, stupefatti, si guardarono in viso senza osar di rispondere.
- Maestà, è una granata!
Il Re in quella granata ci vedeva la figliuola del ciaba, la più bella ragazza del mondo; e, presala pel manico (lui credeva di prenderla per la mano) la portò in carrozza e cominciò a dirle tante belle cose.
I ministri erano costernati e si sussurravano nell'orecchio:
- Che disgrazia! Il Re è ammattito! Il Re è ammattito!
Però, prima di arrivare in città, dove il popolo aspettava l'entrata della Regina, si fecero coraggio; e uno di loro gli disse:
- Maestà, perdonate!... Ma questa qui è una granata!
Il Re montò sulle furie; la prese per un'offesa alla Regina. Fece fermar la carrozza e ordinò ai soldati che legassero quell'impertinente alla coda di un cavallo, e così lo trascinassero fino al palazzo reale.
Gli altri, vista la mala parata, stettero zitti. E il Re, giunto al palazzo reale, si affacciò alla finestra per mostrare al popolo la Regina:
- Ecco la vostra Regina!
Non avea finito di dirlo, che gli cadde come una benda dagli occhi e si vide lì, colla granata in mano, mentre tutto il popolo rideva, perché Sua Maestà pareva proprio uno spazzino.
Con chi prendersela? La colpa era della sua cattiva stella, e di quella malìa della ragazza!
Ma intanto s'incaponiva di più nel volerla per moglie.
Il servitore tornò sano e salvo, colmo di regali.
- Che rispose il Re di Spagna?
- Maestà, il Re di Spagna rispose:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Il Re fece finta di esserne contento, ma chiamò un Mago e gli raccontò ogni cosa:
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'uomo possiede l'anello incantato della fata Regina, e finché lo avrà al dito, non vi sbarazzerete di lui. Bisogna trovare un'astuzia per portargli via quell'anello: la forza non vale.
Pensa e ripensa, un giorno il Re, visto che il suo servitore era tutto sudato dal gran lavorare che aveva fatto:
- Vien qua, - gli disse - vo' darti un bicchiere del mio vino; te lo meriti.
Quel vino era conciato coll'oppio, e il pover'uomo non l'ebbe bevuto, che cadde in un profondissimo sonno.
Sua Maestà gli cavò l'anello dal dito, se lo mise nel suo, e così andò a presentarsi alla figliuola del ciaba:
- Buon giorno, bella ragazza!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza sentiva un'atroce puntura al dito mignolo e scuoteva la mano!
- Ahi! Ahi! Ahi!
Ora la cosa andava bene, e il Re ordinò di bel nuovo i preparativi per le nozze. E quando fu quel giorno, andò a rilevare la sposa colla carrozza di gala.
Giunti al palazzo reale, disse alla Regina:
- Maestà, questo è il vostro appartamento.
Ma, poco dopo, quando il Re volle andare a vederla, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscio e vedeva scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
La Regina veniva ai ricevimenti di corte, veniva nella sala da pranzo dove c'erano molti invitati; poi si ritirava nel suo appartamento.
Il Re voleva andare a vederla; ma, gira di qua, gira di là, non trovava mai l'uscio e vedeva sempre scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Si disperava, ma non diceva nulla a nessuno; non volea sentirsi canzonare.
Quel pover'uomo del servitore, dopo un sonno di due giorni, appena aperti gli occhi, si era subito accorto che gli era stato rubato l'anello, ed era uscito dal palazzo reale, piangendo la sua sventura.
Fuori le porte della città avea trovato la vecchina:
- Ah, vecchina mia! Mi han rubato l'anello.
- Non ti disperare, non è nulla. Quando il Re avrà sposato, appena la Regina sarà entrata nel suo appartamento, pianta questo chiodo sulla soglia dell'uscio e vedrai.
Perciò il Re non trovava mai l'uscio, quando voleva entrare nelle stanze della Regina. C'era quel chiodo piantato lì, che glielo impediva.
Il Re scoppiava dalla rabbia. Fece chiamare novamente il Mago, e gli raccontò in segreto ogni cosa.
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'uomo ha avuto un chiodo incantato dalla fata Regina, e l'ha piantato sulla soglia. E questa volta, Maestà, non c'è astuzia che valga: rimarrete un marito senza moglie.
- Ma che offesa ho io fatto a codesta fata Regina? Non la conosco neppur di vista!
- No, Maestà. Vi rammentate d'una vecchina che vi domandò l'elemosina il giorno che voi andavate la prima volta dal ciaba? Vi ricordate che la urtaste col cavallo e cadde per terra?
- Sì.
- Era lei, la fata Regina.
Il Re dovette persuadersi che era inutile lottare con una Fata, e si rassegnò a sposare una bella ragazza, sì, ma non la più bella del mondo. Sposò la Reginotta di Francia.
Il servitore sposò la figliuola del ciaba; e il Re gli diè una ricca dote e lo fece intendente di casa reale.
Re e servitore ebbero molti figliuoli:
E noi restiamo da cetriuoli.
- E se non è di sangue reale? - gli domandarono i ministri.
- Non me n'importa nulla.
- Allora sappiate, Maestà, che la più bella ragazza del mondo è la figliuola di un ciaba. Ma il popolo, che è maligno, potrebbe chiamarla: la regina Ciabatta... Maestà, non sta bene: rifletteteci meglio.
Il Re rispose:
- La figliuola del ciaba è la più bella ragazza del mondo? La figliuola del ciaba sarà dunque mia sposa e Regina. Andrò a vederla senza farmi conoscere; partirò domani.
Ordinò che gli si sellasse uno dei suoi cavalli, e, accompagnato da un solo servitore, s'incamminò per quel paese, dove il ciaba abitava.
Per via incontrarono una vecchia che domandava l'elemosina:
- Fate la carità! Fate la carità!
Il Re non se ne dava per inteso.
La vecchina arrancava dietro il cavallo.
- Fate la carità! Fate la carità!
Il cavallo del Re s'adombrò, e urtò la vecchina che cadde per terra.
Il Re, senza punto curarsene, tirò innanzi; ma il servitore, impietosito, scese da cavallo, la sollevò, e visto che non s'era fatta nulla di male, cavò di tasca le poche monete che aveva e gliele mise in mano:
- Vecchina mia, non ho altro.
- Grazie, figliuolo; si vede il buon cuore. Accetta in ricambio questo anellino e portalo al dito; sarà la tua fortuna.
Arrivati in quel paese, il Re accompagnato dal servitore passò e ripassò davanti la bottega del ciaba, finché non gli riuscì di vedere la bella ragazza, che era la più bella del mondo. Rimase abbagliato!
E, senza por tempo in mezzo, disse al ciaba:
- Io sono il Re: vo' la tua figliuola per moglie.
- Maestà, c'è un intoppo. La mia figliuola ha una malìa: chi le parlerà la prima volta e le farà provare una puntura al dito mignolo, quello dovrà essere il suo sposo. Possiamo provare.
Il Re a questa notizia rimase un po' turbato; ma poi pensò:
- Se questa malìa è la sua buona sorte, costei dev'essere destinata a sposare un regnante.
E tutto allegro, disse al ciaba:
- Proviamo.
Il ciaba chiamò la figliuola, senza dirle del Re; e come questi se la vide dinanzi, restò più abbagliato di prima.
- Buon giorno, bella ragazza.
- Buon giorno, signore.
Lei non sapeva nulla della malìa. Suo padre, che sarebbe stato felice di vederla Regina, le domandò:
- Non ti senti nulla?
- Nulla. Che cosa dovrei sentirmi?
Il povero Re, gli parve di morire a quella risposta. E stava per andarsene zitto zitto; quando il servitore, ch'era rimasto in un canto, credette opportuno di dire sottovoce alla ragazza:
- Badate, è Sua Maestà!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza si sentiva un'atroce puntura al dito mignolo, e scoteva la mano:
- Ahi! Ahi! Ahi!
Figuriamoci il viso del Re, come capì che quella ragazza, la più bella del mondo, era destinata a quel tanghero del suo servitore!
Prese in disparte il ciaba e gli disse:
- Lascia fare a me; la tua figliuola sarà Regina.
Tornato al palazzo reale, chiamò il servitore:
- Prima che tu sposi la figliuola del ciaba, devi rendermi un servigio: mi fido soltanto di te. Portami questa lettera al Re di Spagna, e attendi la risposta; ma nessuno deve sapere dove tu vada e perché.
- Maestà, sarà fatto.
Prese la lettera e partì.
A metà di strada incontrò quella vecchina:
- Dove vai, figliuolo mio?
- Dove mi portan le gambe.
- Ah, poverino! Tu non sai quel che ti aspetta. Quella lettera è un tradimento! Se tu la presenti al Re, sarai subito ammazzato. Portagli questa, invece: farà un altro effetto.
Allora lui prese la lettera della vecchina, e quella del Re la buttò via. Ringraziò e proseguì il viaggio.
Era già passato un anno, e non si era saputo più nuova di lui.
Il Re tornò dal ciaba, e disse alla ragazza:
- Quell'uomo dev'essere morto: è già passato un anno e non si sa nuova di lui. Il meglio che possiamo fare è lo sposarci noialtri.
- Maestà, come voi volete.
Il Re fece i preparativi delle nozze, e quando fu quel giorno, andò insieme coi ministri a rilevare la sposa con la carrozza di gala.
In casa del ciaba trovarono una granata ritta in mezzo alla stanza, e il Re disse ai ministri:
- Ecco Sua Maestà la Regina!
I ministri, stupefatti, si guardarono in viso senza osar di rispondere.
- Maestà, è una granata!
Il Re in quella granata ci vedeva la figliuola del ciaba, la più bella ragazza del mondo; e, presala pel manico (lui credeva di prenderla per la mano) la portò in carrozza e cominciò a dirle tante belle cose.
I ministri erano costernati e si sussurravano nell'orecchio:
- Che disgrazia! Il Re è ammattito! Il Re è ammattito!
Però, prima di arrivare in città, dove il popolo aspettava l'entrata della Regina, si fecero coraggio; e uno di loro gli disse:
- Maestà, perdonate!... Ma questa qui è una granata!
Il Re montò sulle furie; la prese per un'offesa alla Regina. Fece fermar la carrozza e ordinò ai soldati che legassero quell'impertinente alla coda di un cavallo, e così lo trascinassero fino al palazzo reale.
Gli altri, vista la mala parata, stettero zitti. E il Re, giunto al palazzo reale, si affacciò alla finestra per mostrare al popolo la Regina:
- Ecco la vostra Regina!
Non avea finito di dirlo, che gli cadde come una benda dagli occhi e si vide lì, colla granata in mano, mentre tutto il popolo rideva, perché Sua Maestà pareva proprio uno spazzino.
Con chi prendersela? La colpa era della sua cattiva stella, e di quella malìa della ragazza!
Ma intanto s'incaponiva di più nel volerla per moglie.
Il servitore tornò sano e salvo, colmo di regali.
- Che rispose il Re di Spagna?
- Maestà, il Re di Spagna rispose:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Il Re fece finta di esserne contento, ma chiamò un Mago e gli raccontò ogni cosa:
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'uomo possiede l'anello incantato della fata Regina, e finché lo avrà al dito, non vi sbarazzerete di lui. Bisogna trovare un'astuzia per portargli via quell'anello: la forza non vale.
Pensa e ripensa, un giorno il Re, visto che il suo servitore era tutto sudato dal gran lavorare che aveva fatto:
- Vien qua, - gli disse - vo' darti un bicchiere del mio vino; te lo meriti.
Quel vino era conciato coll'oppio, e il pover'uomo non l'ebbe bevuto, che cadde in un profondissimo sonno.
Sua Maestà gli cavò l'anello dal dito, se lo mise nel suo, e così andò a presentarsi alla figliuola del ciaba:
- Buon giorno, bella ragazza!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza sentiva un'atroce puntura al dito mignolo e scuoteva la mano!
- Ahi! Ahi! Ahi!
Ora la cosa andava bene, e il Re ordinò di bel nuovo i preparativi per le nozze. E quando fu quel giorno, andò a rilevare la sposa colla carrozza di gala.
Giunti al palazzo reale, disse alla Regina:
- Maestà, questo è il vostro appartamento.
Ma, poco dopo, quando il Re volle andare a vederla, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscio e vedeva scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
La Regina veniva ai ricevimenti di corte, veniva nella sala da pranzo dove c'erano molti invitati; poi si ritirava nel suo appartamento.
Il Re voleva andare a vederla; ma, gira di qua, gira di là, non trovava mai l'uscio e vedeva sempre scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Si disperava, ma non diceva nulla a nessuno; non volea sentirsi canzonare.
Quel pover'uomo del servitore, dopo un sonno di due giorni, appena aperti gli occhi, si era subito accorto che gli era stato rubato l'anello, ed era uscito dal palazzo reale, piangendo la sua sventura.
Fuori le porte della città avea trovato la vecchina:
- Ah, vecchina mia! Mi han rubato l'anello.
- Non ti disperare, non è nulla. Quando il Re avrà sposato, appena la Regina sarà entrata nel suo appartamento, pianta questo chiodo sulla soglia dell'uscio e vedrai.
Perciò il Re non trovava mai l'uscio, quando voleva entrare nelle stanze della Regina. C'era quel chiodo piantato lì, che glielo impediva.
Il Re scoppiava dalla rabbia. Fece chiamare novamente il Mago, e gli raccontò in segreto ogni cosa.
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'uomo ha avuto un chiodo incantato dalla fata Regina, e l'ha piantato sulla soglia. E questa volta, Maestà, non c'è astuzia che valga: rimarrete un marito senza moglie.
- Ma che offesa ho io fatto a codesta fata Regina? Non la conosco neppur di vista!
- No, Maestà. Vi rammentate d'una vecchina che vi domandò l'elemosina il giorno che voi andavate la prima volta dal ciaba? Vi ricordate che la urtaste col cavallo e cadde per terra?
- Sì.
- Era lei, la fata Regina.
Il Re dovette persuadersi che era inutile lottare con una Fata, e si rassegnò a sposare una bella ragazza, sì, ma non la più bella del mondo. Sposò la Reginotta di Francia.
Il servitore sposò la figliuola del ciaba; e il Re gli diè una ricca dote e lo fece intendente di casa reale.
Re e servitore ebbero molti figliuoli:
E noi restiamo da cetriuoli.
- Consuelo
- Visitatori
14 Anni 11 Mesi fa #4139
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Le Favole più belle
L'asinello piangente
Lillo, il caprone, stava recandosi presso il campo di trifoglio fresco, di cui andava assai goloso. Mentre camminava, sentì, da dietro il pagliaio, una voce lamentarsi.
Preoccupato fece per andare a vedere, quando da dietro un covone spuntò fuori Aristotele, l’asinello grigio della fattoria.
Che cosa ti è successo Ary? Perché piangi? disse impensierito il barbuto caprone.
Il ciuchino continuò a singhiozzare, e mentre seguitava a versar lacrime rispose:
E’ per via di Vento, il cavallo. Lui dice di galoppare tanto più forte di me, e mi indica come un ozioso e un ritardato. Quando vuole offendere qualcuno gli dà del somaro, ed io ne soffro. Va sparlando di me come di un bighellone, prendendosi gioco dei miei lunghi orecchi, dei fianchi grossi in confronto ai suoi, e della altezza ridicola rispetto al suo metro e sassantacinque al garrese!
Lillo rimase per un po’ serio, poi cominciò a ragionare ad alta voce.
Eppure tu lavori molto! Ti impegni con la soma, traini il carretto con il fieno, fai muovere la macina, tutti ti dovremmo essertene grati!.....Purtroppo spesso la menzogna val più della verità!
L’asinello rispose:
Di solito noi finiamo coll’essere quello che gli altri pensano di noi: e così assumiamo un ruolo. In questo modo forse hanno ragione Vento e gli altri membri della fattoria, sono un fannullone!
Niente a fatto! Tu sei un gran lavoratore, ti impegni e sei mansueto.
Noi non dobbiamo subire la realtà, né fuggirla, dobbiamo lavorare per quello che siamo e trarne soddisfazione. E’ nostro dovere costruire il proprio presente e anche il futuro!
Aristotele stette un po’ a riflettere, poi espresse, tutto consolato, un pensierino finale:
Hai proprio ragione! Il mio padrone è contento di me! Io sono pago per quanto faccio, e l’appagamento di sé si ha quando i punti di riferimento per costruirsi la propria immagine non si cercano solo all’esterno, ma soprattutto dentro di sé!
E così il somarello grigio smise di piangere, e trotterellando corse verso la macina, per riprendere a lavorare lieto e sereno.
Lillo, il caprone, stava recandosi presso il campo di trifoglio fresco, di cui andava assai goloso. Mentre camminava, sentì, da dietro il pagliaio, una voce lamentarsi.
Preoccupato fece per andare a vedere, quando da dietro un covone spuntò fuori Aristotele, l’asinello grigio della fattoria.
Che cosa ti è successo Ary? Perché piangi? disse impensierito il barbuto caprone.
Il ciuchino continuò a singhiozzare, e mentre seguitava a versar lacrime rispose:
E’ per via di Vento, il cavallo. Lui dice di galoppare tanto più forte di me, e mi indica come un ozioso e un ritardato. Quando vuole offendere qualcuno gli dà del somaro, ed io ne soffro. Va sparlando di me come di un bighellone, prendendosi gioco dei miei lunghi orecchi, dei fianchi grossi in confronto ai suoi, e della altezza ridicola rispetto al suo metro e sassantacinque al garrese!
Lillo rimase per un po’ serio, poi cominciò a ragionare ad alta voce.
Eppure tu lavori molto! Ti impegni con la soma, traini il carretto con il fieno, fai muovere la macina, tutti ti dovremmo essertene grati!.....Purtroppo spesso la menzogna val più della verità!
L’asinello rispose:
Di solito noi finiamo coll’essere quello che gli altri pensano di noi: e così assumiamo un ruolo. In questo modo forse hanno ragione Vento e gli altri membri della fattoria, sono un fannullone!
Niente a fatto! Tu sei un gran lavoratore, ti impegni e sei mansueto.
Noi non dobbiamo subire la realtà, né fuggirla, dobbiamo lavorare per quello che siamo e trarne soddisfazione. E’ nostro dovere costruire il proprio presente e anche il futuro!
Aristotele stette un po’ a riflettere, poi espresse, tutto consolato, un pensierino finale:
Hai proprio ragione! Il mio padrone è contento di me! Io sono pago per quanto faccio, e l’appagamento di sé si ha quando i punti di riferimento per costruirsi la propria immagine non si cercano solo all’esterno, ma soprattutto dentro di sé!
E così il somarello grigio smise di piangere, e trotterellando corse verso la macina, per riprendere a lavorare lieto e sereno.
14 Anni 10 Mesi fa #4394
da perla84
Risposta da perla84 al topic Re:Le Favole più belle
Il punto interrogativo
C'era una volta un punto
interrogativo, un grande curiosone
con un solo ricciolone,
che faceva domande
a tutte le persone,
e se la risposta
non era quella giusta
sventolava il suo ricciolo
come una frusta.
Agli esami fu messo
in fondo a un problema
così complicato
che nessuno trovò il risultato.
Il poveretto, che
di cuore non era cattivo,
diventò per il rimorso
un punto esclamativo
C'era una volta un punto
interrogativo, un grande curiosone
con un solo ricciolone,
che faceva domande
a tutte le persone,
e se la risposta
non era quella giusta
sventolava il suo ricciolo
come una frusta.
Agli esami fu messo
in fondo a un problema
così complicato
che nessuno trovò il risultato.
Il poveretto, che
di cuore non era cattivo,
diventò per il rimorso
un punto esclamativo
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